Il caso VW che scosso l’industria automobilistica degli ultimi anni ha origini lontane, da rintracciare in un rapporto dimenticato della Commissione Europea e nelle indagini condotte dall’ICCT negli Stati Uniti nel 2014.
Il ‘caso VW‘ – meglio noto come dieselgate Volkswagen – scoppia nel 2014 quando per la prima volta emerge che il marchio leader del Gruppo VW abbia utilizzato – su diversi modelli di auto con motore diesel – un software per manipolare i riscontri relativi alle emissioni inquinanti. Vediamo di seguito come si è dipanato il caso, dalle prime avvisaglie alle più recenti sanzioni a danno dei costruttori e dei dirigenti.
2013: il rapporto della Commissione Europa
Il 27 settembre 2015 un articolo del Financial Times rivela come la Volkswagen avesse ricevuto un avvertimento da parte degli organi di vigilanza della Comunità Europea già nel 2013; pochi giorni dopo, un altro articolo del FT – intitolato “L’UE non ha fatto attenzione agli avvertimenti sulle emissioni nel 2013” – sottolinea come l’Unione Europea non abbia tenuto in debita considerazione quanto emerso dalle indagini del Centro Ricerche della Commissione Europea.
A quasi due anni dallo scoppio dello scandalo vero e proprio, i risultati dei test effettuati dal Joint Research Centre vengono inclusi in un rapporto di 40 pagine che rivela come i veicoli con motori diesel esaminati producano emissioni di NOx che superano “abbondantemente” gli standard previsti dalla legge.
Nel documento, a pagina 31, si legge: “i sensori e le componenti elettroniche sono capaci di ‘rilevare’ l’inizio di un test per le emissioni in laboratorio“. Questo aspetto, secondo il rapporto, è “problematico dal punto di vista della normativa sulle emissioni, perché può consentire l’uso di defeat device che attivano, regolano, ritardano o disattivano i sistemi di controllo delle emissioni con lo scopo di incrementare o diminuire l’efficacia di tali sistemi”. L’impiego dei cosiddetti ‘defeat device’ è proibito, salvo talune eccezioni che, si legge ancora nella relazione, “lasciano spazio all’interpretazione e forniscono un margine di azione, assieme all’attuale procedura di test, per modificare a piacimento le emissioni“. L’indagine rivela come i motori diesel esaminati producessero livelli di NOx tali da infrangere i limiti imposti dalle normative Euro 3, 4 e 5.
2014: i test ICCT e lo scoppio del caso diesel Volkswagen
Lo scandalo dei diesel manipolati per aggirare le norme anti inquinamento inizia a montare nei primi mesi del 2014. Già nel 2013, l’ICCT (International Council on Clean Transportation) commissiona ai ricercatori dell’Università della West Virginia un’indagine sulle emissioni dei diesel Volkswagen su suggerimento di Peter Mock, il responsabile per l’Europa dell’ICCT. I test vengono svolti negli Stati Uniti e riguardano tre modelli, due Volkswagen (Jetta e Passat) e una BMW X5.
I due modelli della Casa di Wolfsburg vengono testati non in laboratorio ma su strada, in condizioni di guida reali, grazie al PEMS (Portable Emission Measurement System), un sistema di rilevamento portatile. Mentre la BMW offre riscontri tutto sommato in linea con i dati ufficiali forniti dal costruttore, la Jetta e la Passat (quest’ultima provata su strada da Los Angeles a Seattle e ritorno, per un totale di oltre 3.000 km) presentano valori molti distanti da quelli ufficiali diramati dalla Volkswagen. Rispetto ai limiti imposti dalla normativa, le emissioni sono tra le 5 e le 20 volte superiori per quanto riguarda la Passat e tra le 15 e le 35 volte per la Jetta.
Sulla base dei risultati ottenuti dai test, viene allertato in primo luogo il California Air Resources Board: partono le indagini a carico della Volkswagen. Il colosso tedesco, già a metà del 2014, è chiamato a rispondere delle enormi discrepanze emerse dai test svolti su Jetta e Passat ma liquida i risultati come semplici problemi tecnici; poco dopo, provvede al richiamo volontario di circa mezzo milione di autovetture vendute sul mercato americano per effettuare un aggiornamento volontario del software. L’operazione, però, non convince le autorità americane per le quali la Volkswagen deve rispondere anche della mancata segnalazione del problema. Nel mentre, il caso viene portato all’attenzione dell’EPA, l’agenzia americana per la protezione ambientale.
2015 – 18: effetto domino e sanzioni milionarie
Dopo aver cercato di derubricare il ‘caso’ delle emissioni irregolari a semplice inconveniente tecnico, la Volkswagen ammette le proprie responsabilità. Il turning point della vicenda cade tra agosto e settembre del 2015: prima l’EPA minaccia di bloccare del tutto la vendita dei modelli VW e Audi negli Stati Uniti per il 2016, poi l’azienda di Wolfsburg fa pubblicamente mea culpa: il 3 settembre, la dirigenza del gruppo tedesco conferma la presenza del device in grado di aggirare le norme imposte negli Stati Uniti sui limiti delle emissioni auto. Il 23 settembre, il CEO della Volkswagen, Martin Winterkorn (dopo aver definito l’intera vicenda come “il madornale errore di poche persone”) rassegna le proprie dimissioni.
Lo scandalo è definitivamente scoppiato e le conseguenze si riverberano anche sulle finanze del gruppo tedesco. La portata del caso Volkswagen è enorme: l’azienda ammette il coinvolgimento di circa 11 milioni di unità e annuncia l’accantonamento di quasi sette miliardi di euro per far fronte alle spese derivanti dalle operazioni di richiamo e aggiornamento dei software. Intanto, la stampa tedesca rivela come i vertici del gruppo fossero a conoscenza del problema già in tempi non sospetti; in particolare, secondo un articolo della Bild pubblicato il 30 settembre del 2015, alcuni sapevano delle irregolarità da quasi un decennio.
Il 29 settembre parte la maxi campagna di richiamo per gli 11 milioni di modelli coinvolti; quasi la metà (5 milioni) sono Volkswagen; il resto sono di altri marchi del gruppo, ovvero Audi (2.1 milioni), Skoda (1.2 milioni) e SEAT (700.000), oltre a quasi due milioni di veicoli commerciali leggeri.
Contestualmente, la VW deve affrontare le conseguenze dello scoppio dello scandalo e farsi carico degli indennizzi a favore dei possessori dei modelli equipaggiati con motori irregolari. Intanto la Casa tedesca deve rispondere anche sul piano legale delle proprie responsabilità: il procedimento a carico della Volkswagen sfocia in una sanzione da un miliardo di euro mentre per l’Audi la multa ammonta ad 800 milioni di euro. In entrambi i casi, le due aziende non hanno presentato ricorso, così da considerare chiusa – in maniera definitiva – l’azione legale a proprio carico. Finita qui? Non proprio. Il caso VW diesel non è isolato; nel calderone sono finite anche Ford e FCA e, per restare in Germania, la Opel – malgrado sia di proprietà del gruppo francese PSA – il Gruppo Daimler e BMW. Come se non bastasse, la Commissione Europea avrebbe scoperchiato a luglio 2018 un ‘dieselgate al contrario‘ ordito da alcuni costruttori per ottenere limitazioni meno stringenti alle emissioni inquinanti rispetto a quelle previste per i prossimi anni.
Fonte immagine: https://www.flickr.com/photos/joshzphotography/11876301203
Fonte immagine: https://www.flickr.com/photos/bobrenner/43614555281